Sin dall’inizio di questa epidemia si sente parlare – a volte a proposito e a volte meno – di “evidence based medicine” (EBM)
o, nella traduzione italiana “medicina basata sull’evidenza”.
Chi scrive ha provato più volte a far notare che il termine italiano “evidenza” non corrisponde perfettamente a quello inglese “evidence” e che una migliore traduzione sarebbe “medicina basata sulle prove”, ma ormai l’espressione si è affermata e non c’è verso di cambiarla.
Le “evidenze” hanno invaso il lessico quotidiano, prendendo il posto che nel passato hanno avuto termini come “cioè”, “attimino”, “assolutamente”.
Ma cos’è la EBM?
La filosofia sottostante la EBM può essere riassunta in cinque punti principali:
1) tutte le decisioni cliniche si devono basare su dati scientifici provati;
2) è il tipo di problema clinico che deve determinare il tipo di prova da ricercare;
3) identificare dati certi significa adottare un ragionamento statistico;
4) le conclusioni derivate dai dati certi sono utili solo se sono utilizzabili clinicamente;
5) i risultati ottenuti da un trattamento andrebbero in continuazione riconsiderati.
[Davidoff F, et al.:Evidence based medicine: a new journal to help doctors identify the information they need. BMJ 1995: 310:1085-86].
In definitiva la EBM afferma che nessuna procedura diagnostica o terapeutica debba ritenersi validata se non dopo un’esperienza empirica che la sostanzi.
Nei fatti si rigetta ogni appello al principio d’autorità ( “l’ha detto quel medico, quindi deve essere vero”),
così come ogni convinzione aneddotica (“nella mia esperienza ha sempre funzionato”, “ci sono numerosi casi in cui sembra essere efficace”),
e ci si rifà rigorosamente a osservazioni controllate, alla riproducibilità delle esperienze, e al consenso tra specialisti.
Il movimento della EBM si presenta, quindi, come un grande movimento, che non si oppone pregiudizialmente a nessuna pratica medica, né quelle convenzionali, né a quelle non-convenzionali, ma pretende che ogni trattamento che si proclami “efficace” sia sottoposto a un rigoroso controllo.
I sostenitori del movimento hanno dichiarato che solo la EBM può consentire al paziente di accedere ad informazioni obiettive e non di parte, perché medici e pazienti si troverebbero a disporre di una stessa fonte neutrale di informazioni.
Medici e pazienti sarebbero messi in grado, dunque, di decidere insieme, e su base paritaria.
La EBM potrebbe anche fondare un meccanismo razionale e condiviso di distribuzione delle cure, evitando diseguaglianze tra gli utenti, e impedendo lo spreco di risorse su trattamenti inefficaci quando non addirittura nocivi.
La funzionalità dell’ EBM sembra essere testimoniata dai risultati: dove è stata adottata, il livello complessivo di efficacia delle cure mediche è aumentato, almeno secondo tutti gli indicatori statistici.
Proprio quest’ ultima esperienza dimostra, però, la principale debolezza della EBM.
Il consenso sociale ad un tipo di medicina piuttosto che ad un altro, è funzione, dell’efficacia che la società nel suo complesso riconosce ad una specifica prassi medica.
L’efficacia di un trattamento non è misurabile oggettivamente (come sembra credere ingenuamente la EBM): non è, cioè, esprimibile in termini di modificazione di alcuni semplici parametri, ma è piuttosto l’espressione del convergere di numerosi fattori biologici, psicologici, e sociali.
Ecco perché pratiche prive di ogni fondamento razionale, o dotate di pseudo fondamenti, riescono tranquillamente a convivere, e a volte a competere con successo, con la medicina scientifica più rigorosa.
Inoltre, è forte il sospetto che la EBM possa essere usata come strumento per tagliare i costi della sanità.
In effetti il livello di efficacia richiesto dagli standard della EBM è riscontrabile solo in pochi trattamenti medico-chirurgici.
Ciò potrebbe costituire un facile, e apparentemente “oggettivo”, alibi alla riduzione incontrollata delle spese mediche.
Infine, qualcuno ha fatto notare che la maggior parte degli studi controllati, essendo finanziati da industrie farmaceutiche, sono indirizzati a valutare l’efficacia di farmaci.
Di conseguenza è più facile che un farmaco, invece che un trattamento non farmacologico (regime dietetico, cambiamento di stile di vita, di ambiente di lavoro, psicoterapia, fisioterapia, ecc.) raggiunga la prova statistica di efficacia.
In ugual modo può succedere che la ricerca venga indirizzata soprattutto verso malattie acute, o fasi di acuzie di malattie croniche, verso situazioni, cioè, in cui è più facile una valutazione “oggettiva” dei risultati.
Si tratta di preoccupazioni da prendere seriamente.
La quotazione in borsa delle aziende farmaceutiche si gioca sulle indiscrezioni che trapelano dagli studi controllati prima che essi siano pubblicati.
In realtà, sarebbe ingenuo pensare che un business enorme come quello della salute possa essere affidato a meccanismi “neutrali”.
Lo stesso sistema a “doppio cieco”, che dovrebbe garantire l’assoluta imparzialità dell’esperimento è spesso solo una finzione semi-consapevole.
Nel 1985, ad esempio, un articolo pubblicato sul Journal of the American Medical Association dimostrò che in un vasto studio a doppio cieco circa il 70% dei dottori e l’ 80% dei pazienti sapeva perfettamente individuare la sostanza somministrata (principio attivo o placebo).
In conclusione, il movimento della EBM ha indubbiamente il merito di richiamare le prassi mediche ad un atteggiamento rigoroso, e di non escludere a priori, ideologicamente, nessuna forma di trattamento.
Il suo principale difetto clinico è nel rischio della trasposizione su un individuo di relazioni dimostrate solo in una popolazione, si tratta di un errore logico che può condurre ad un uso dissennato di linee guida e protocolli producendo ulteriore depersonalizzazione delle cure.
Preoccupa, poi, la possibilità che il movimento della EBM possa costituire la giustificazione scientifica ad una riduzione delle cure mediche fornite dal sistema sanitario pubblico.
Molte cure posseggono un profilo costi/efficacia discutibile, se ci si riferisce al loro effetto puramente biologico.
Curare, però, non vuol dire solo riparare un organismo ma significa anche prendersi cura.
Una cura è tale in quanto ridà il massimo di salute possibile ad una determinata persona, in specifiche condizioni sociali ed ambientali.
La decisione di quale sia questo “massimo di salute possibile” (che poi null’altro è che una valutazione ponderata e saggia degli equilibri biologici, psicologici, e sociali a cui ogni individuo può realisticamente tendere) fa parte di quel “prendersi cura del proprio paziente” che dovrebbe essere connaturato alla professione di ciascun medico.
Non c’è soluzione tecnologica o scientifica che possa colmare il vuoto clinico ed etico lasciato dallo scomparire di questo “prendersi cura” dall'orizzonte mentale e pratico di un numero crescente di medici.